Il
trucco è non pensarci troppo su, ché se ci pensi poi ti chiedi chi
te lo fa fare...
L'altro
trucco è non prefigurarsi con la mente tutti i possibili pericoli a
cui si va incontro, perché quelli che immagini difficilmente si
verificheranno, mentre in compenso ti si pareranno davanti difficoltà
che non avevi proprio preso in considerazione.
Così passo al negozio di noleggio bici e, un po' titubante e ansiogenamente munita di
mille piantine, parto imboccando la ciclabile che corre accanto
alla laguna. Direzione riserva Cavenata e molto dubbiosa (e
tendenzialmente per il no) sull'eventualità di raggiungere l'altra,
più bella e lontana, oasi alla foce dell'Isonzo.
Nel
pedalare la compagnia dei miei dubbi maledetti, che per una maniaca del controllo
come me sono di casa: e se cado? se mi perdo? se non torno in tempo
per consegnare la bici? e se mi stirano?
Ecco,
faccio un respirone, raccolgo tutti i dubbi in un sacchetto
immaginario e, no, non esageriamo, non li abbandono (sono contro l'abbandono io!), ma almeno da là
dentro sento più attutito l'eco delle loro voci. Zitti, capito?
Questo
primo tragitto è un altalenante e sfiancante alternarsi di momenti
di meraviglia a momenti di angoscia, cosa frequente quando inizio a pensare troppo pure se sto facendo qualcosa di piacevole.
E'
il tratto più semplice: la relativamente affollata (o per lo meno
non deserta) pista ciclabile del centro abitato di Grado, che,
superata la zona est dei campeggi e dei residence, continua attraverso
i campi fino alla non lontana riserva della Cavenata, dove mi
rifocillo e riposo un po', ma soprattutto cerco di raccogliere
informazioni per pensare a che fare poi.
La
divulgatrice dell'oasi è l'ago della bilancia che mi fa propendere
per quel che in fondo volevo anche io: decido di assecondare il mio
senso di avventura e lasciare perplessa la mia cautela innata che fa
la combo con il mio senso pratico (dovrò fare tutto di corsa perché il
tempo non è abbastanza!).
Insomma,
non solo decido di puntare verso l'Isola della Cona, ma intraprendo
il percorso più lungo e panoramico: un'incredibile pista ciclabile
sopraelevata sulla costa deserta, un luogo fuori dal tempo. Sole a
picco, quasi nessuna traccia di vegetazione su questa lunga distesa
di spiagge rossastre, poco profonde, non battute dall'uomo, selvagge
e soltanto dimora per gli uccelli. La pista è un terrapieno
sopraelevato di qualche metro rispetto alla pochissimo frequentata
strada che gli corre accanto a sinistra, e protetto da una
staccionata di legno dalla spiaggia che si trova molto molto più
giù.
Ma
quella spiaggia sottostante non è l'unico panorama da ammirare:
pedalando e fissando l'orizzonte leggermente a destra, si apre
davanti ai miei occhi l'intero golfo di Trieste e, prima, la punta
dell'Isola della Cona, e prima ancora la Punta Sdobba, che segna
l'inizio dei tanti rivoli del delta dell'Isonzo.
Alle
mie spalle le ormai lontane spiagge dorate di Grado e ancora più in
là di Lignano Sabbiadoro.
A
me pare di aver scoperto un tesoro, ma insieme sono intimorita dal
fatto di essere sola: sola con gli uccelli, l'erba, le rocce, il
mare, la sabbia. Nient'altro. E' inebriante e insieme angosciante. Mi
conforto per un attimo quando dalla stradina sottostante sento
arrivare un gruppo di motociclisti delusi dall'accorgersi che il
panorama è a solo appannaggio dei ciclisti. E spariscono velocemente
sulle loro moto.
Il
mio percorso è rallentato dalle frequenti soste per fotografare e
catturare ogni sensazione, soste che a un certo punto evito sempre di
più quando mi rendo conto di aver sforato qualsiasi ragionevole
tabella di marcia.
Ma
sapete che c'è? Lì, proprio lì, su quella pista sotto il sole
cocente che non mancherà di disegnarmi addosso i pantaloncini,
realizzo per la prima volta un aspetto della fotografia che non mi
era ancora stato così chiaro: estrarre la macchina fotografica mi dà
coraggio quando la paura è troppa, quasi come potesse proteggermi.
Con lei non mi sento davvero sola.
Sola
nel sole, bruciata e affaticata, raggiungo finalmente Punta Sdobba:
ormai sono immersa nella natura pura, quella che non c'entra niente
con i lavori dell'uomo; è opera del mare e del fiume che si
incontrano con la terra.

(Punta
Sdobba e in lontananza l'isola della Cona)
Ma
proseguo presto per recuperare il tempo 'perso' con questo tratto
panoramico e raggiungere il raccordo con l'itinerario che avrei
dovuto fare, credendo che la parte in isolamento è terminata.
Errore: la pista finisce e io mi ritrovo su una deliziosa stradina di
campagna, stavolta in direzione nord, come ce ne sono tante,
circondata a destra da un altro terrapieno (immagino che le golene siano d'uso
comune qui) e campi, campi e ancora campi a sinistra. E
neppure l'ombra di una presenza umana, se non, nell'arco di due ore,
qualche sporadica automobile, un paio di motorini e un ciclista molto
più veloce di me. E la pelle inizia a bruciare davvero forte (sbagliato aver
pensato che la crema solare serva esclusivamente in spiaggia!).
E
siccome angoscia chiama angoscia, eccomi ad aver timore dell'ultimo
tratto di 2 km su statale che mi separano dalla Cona. Dover percorrere questo brutto segmento non protetto era il motivo
fondamentale per cui pensavo di evitare di arrivare alla Cona...
Fino
all'ultimo penso che se non me la sento tornerò indietro e pace.
Ci
penso così intensamente che ad un tratto mi fermo e mi redarguisco
da me: smettila! sei qui ed ora: non pensare a dopo! stai qui con la
mente!
Per
quanto faticoso, finisce anche questo pezzo di strada: sono sbucata
sulla statale che di nuovo corre verso est per superare con un ponte
l'Isonzo.
Deglutisco,
penso che se devo finire male, investita, tanto vale pedalare e non
pensarci, e così spalancando gli occhi di paura (come i miei
conigli!) ogni volta che una macchina o un tir mi sibila di fianco
facendo vibrare l'aria, arrivo al ponte, dove scendo dalla bici
(davvero troppo pericoloso) per portarla a mano e scattare qualche
fotografia al fiume (coerenza zero...). Poi, grazie a Dio, incrocio
la stradina sterrata che riporta verso sud, stavolta
accanto alla sponda est dell'Isonzo, e dopo aver pedalato ancora un
bel po', individuo l'ingresso alla riserva (è tardissimo!!!).
Eccoli, i cavalli camargue!, quell'immagine che è montata nella mia
testa nei giorni precedenti fino a farmi desiderare di venire qui!

(Cavalli
camargue all'isola della Cona)
Vedo
un gruppo di ciclisti che stanno decidendo come visitare l'isola. Un
po' invidio che siano in compagnia... Sono gli stessi che mi aveva
indicato la divulgatrice della Cavenata invitandomi ad accodarmi a
loro (non mi sono neppure proposta: non volevo fare percorsi
alternativi e sapevo di non essere molto veloce). Mi faccio fare un
panino al bar e, recuperato l'entusiasmo, parto per l'escursione a
piedi, dove con mio disappunto mi trovo davanti ad un'altra scelta (oh no, un'altra!):
il più breve e semplice percorso ad anello con vari punti di
osservazione ma senza poter raggiungere gli animali allo stato brado che stanno al
centro dell'anello, oppure il percorso lineare che arriva molto più
lontano, in punta, tra zone con animali che circolano liberi, cavalli
compresi.
(L'anello,
ricorda, l'anello: non hai neppure tempo! L'anello!!!)
Ovviamente
mi incammino per il secondo percorso, capendo ben presto che non è
per cuori pavidi: mi cago addosso man mano che mi addentro per la boscaglia
paludosa, ancora una volta sola che più sola non si può (ma dove
cavolo sono i turisti, gli appassionati di natura, cristo?!?),
trasalendo ogni volta che qualche bestiola mi si muove vicino. Ho
paura di perdermi perché i percorsi si diramano man mano, moltiplicandosi e non sono
segnalati. Sono così terrorizzata che il trillo di whatsapp mi fa
tirare un sospiro di sollievo: bene, il telefono prende! Mi sento come Alice quando si perde nel bosco.
La
mia avventura verso la punta, alla ricerca dei cavalli liberi che in
genere mi dicono scorazzare proprio là, si interrompe a circa 2/3
del percorso. Alzo bandiera bianca. Ho cercato di andare avanti più che potevo, ma sono le
tre e mezza del pomeriggio, mi manca tutto il percorso ad anello, e sono sfinita e
terrorizzata. Sono arrivata almeno al punto in cui la terra inizia a
diventare un sottile lembo in mezzo alla foce: la costa è
più vicina e da dove sono io vedo bene il profilo industriale di
Monfalcone.

(Monfalcone
dall'isola della Cona)
Il
percorso ad anello, anch'esso completato senza incontrare pressoché nessuno, è più qualcosa di simile all'idea di riserva che avevo: ci
sono numerosi appostamenti di legno per poter osservare gli uccelli
senza essere visti da loro. Ma io devo correre per il ritardo accumulato!
Arrivo stremata all'ingresso dove scambio ancora due chiacchiere con la barista e reintegro tutti i liquidi del mondo! Non le nascondo la mia delusione per non aver visto i cavalli da vicino. Chissà, forse se fossi arrivata alla punta, se avessi avuto il tempo di sedermi da qualche parte ad aspettare senza fare rumore o se solo avessi avuto un tele-obiettivo... Lei mi consola invitandomi ad andare al punto panoramico del piano soprastante (non l'avevo notato) da cui tramite un cannocchiale c'è una bella vista ravvicinata di cavalli e degli uccelli che gli passeggiano, placidi, tra le zampe.
Arrivo stremata all'ingresso dove scambio ancora due chiacchiere con la barista e reintegro tutti i liquidi del mondo! Non le nascondo la mia delusione per non aver visto i cavalli da vicino. Chissà, forse se fossi arrivata alla punta, se avessi avuto il tempo di sedermi da qualche parte ad aspettare senza fare rumore o se solo avessi avuto un tele-obiettivo... Lei mi consola invitandomi ad andare al punto panoramico del piano soprastante (non l'avevo notato) da cui tramite un cannocchiale c'è una bella vista ravvicinata di cavalli e degli uccelli che gli passeggiano, placidi, tra le zampe.
Durante questa gita, capisco un'altra cosa: ho bisogno di un
obiettivo più potente, telescopico, e dei filtri per ingannare il
sole.
Lasciata
la riserva, stavolta niente strada panoramica: imbocco la via più
'breve' che mi permette di tornare a Grado in due ore e mezza invece
delle quasi cinque dell'andata.
Mi
sforzo per arrivare in centro mezz'ora prima dell'orario di
riconsegna della bici: ustionata e accaldata, desidero salutare il
mare di Grado. Per cui mi butto a mare per una nuotata veloce,
raccolgo i miei vestiti e torno a casa per crollare più morta che
viva a letto.
Bilancio:
una cinquantina di km in bici, 7-8 km a piedi e nuotata finale.
Il
mio personale triathlon.
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